Era il viaggio che non prometteva ritorno,
ma neppure arrivo. Solo curve
stracolme di fari, di clacson, di fuga
e il cielo, basso, come un vetro appannato.
Ogni uscita un miraggio: cartelli
che indicavano paesi senza nome,
fabbriche sbuffanti, capannoni
dove il tempo marciva in turni vuoti.
E tu, in quest’auto che era un’astuccio
di sudore e radio accesa, hai contato
i cavalcavia, i distributori,
le insegne accecanti di motel spenti.
Poi, a un semaforo, l’epifania:
il viaggio era già finito. Non qui,
non altrove. Solo quel motore
che continuava a tremare, in folle.