09 settembre 2011

Messer Filippo

Non è mia consuetudine scrivere in prosa. Sono, o mi fingo, poeta.

Ma certe cose che accadono nel mio paese (detto paese per non dire disastro), non si lasciano mettere in versi: troppo storte, troppo vere, troppo assurde.

Scrivo dunque per necessità, non per mestiere.


Messer Filippo


Per lungo tempo, non si sentì altro che quel nome: Messer Filippo.

Una volta era solo un suono vuoto, una trovata pubblicitaria venuta al gelataio Gelmino Zuccherati in un pomeriggio caldo e lento, mentre scriveva su un tovagliolo i nomi dei gusti nuovi.

Poi quel nome crebbe. Dilagò.

Divenne marca, leggenda, firma. Dapprima fu “Il Cono di Messer Filippo”, poi “La Cialda Filosofica”, poi ancora “Le Confessioni Balsamiche di Messer Filippo”. Ma non si fermò lì.

In breve tempo il paese si popolò di “Panetteria Messer Filippo”, “Assicurazioni Messer Filippo”, “Centro Benessere Medievale Messer Filippo” e persino un’“Agenzia Funebre Filippo L’Eterno”.

C’era un “Parco Avventura Messer Filippo”, dove si scalava una torre di plastica per simulare la prigionia del leggendario cavaliere (tra urla registrate e finte catene).

E un “Teatro dell’Estasi Filippo”, dove nessuno recitava e si vendevano solo pop-corn.

Il nome, ormai, non diceva più nulla.

O forse diceva troppo.

Era diventato un contenitore: ognuno vi versava dentro ciò che voleva.

Gelmino, dal canto suo, era fiero. Lo diceva con un sorriso incerto, che sembrava aspettare conferme: «L’ho inventato io, sapete. Messer Filippo. Prima era solo per i gelati. Ma poi, beh... la gente l’ha amato.»

Quella sera rientrava tardi. Aveva partecipato al taglio del nastro della nuova “Toelettatura per Cani Storici Messer Filippo”, e si portava addosso l’odore di disinfettante misto a vaniglia.

Trovò la porta aperta. Non scassinata. Solo... aperta. Come se qualcuno l’avesse lasciata così per farsi trovare.

Entrò. E lo vide.

Un uomo sedeva sulla poltrona che nessuno usava. Indossava un abito fuori dal tempo, polveroso. Lo guardava come si guarda un nome dimenticato.

«Buonasera» disse.

Gelmino fece per chiedere chi fosse. Ma la risposta era già lì.

«Messer Filippo...» mormorò.

L’altro annuì, lentamente. Non c’era minaccia in lui. Ma neppure pace.

«Avete rubato il mio nome» disse.

La voce era calma. Ma portava con sé un’eco di torrioni antichi e finestre murate.

«Era solo... un’idea», tentò Gelmino.

«Un’idea non vive, se non la si lascia essere sé stessa» rispose l’uomo. «Io ero fame. Solitudine. Attesa. Una torre, senza tempo. Voi mi avete fatto testimonial di un dopobarba e di salsicce aromatizzate alla cannella.»

Fece una pausa. Poi proseguì, sempre con calma. «Ho veduto persino un gelato “Messer Filippo al gusto nebbia e zafferano”.»

Gelmino voleva dire qualcosa, ma le parole non gli ubbidivano.

Egli sentì, per la prima volta, che non sapeva più chi fosse: se Gelmino, il gelataio; o solo uno dei tanti che portano avanti nomi che non gli appartengono.

«Io non esisto più», disse Messer Filippo. «Ma ora... nemmeno tu.»

Si alzò. Lo toccò con due dita. E Gelmino sparì. Non di colpo, no. Si sfaldò lentamente, come panna lasciata al sole.

E il nome, da quel giorno, cominciò a sparire dalle insegne.

Un po’ alla volta. Come se non volesse più appartenere a nessuno.